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Ti senti un animale strano? Perché forse lo sei.




Cos’hanno in comune una zebra, un cane, un gatto, un cammello e un criceto?


L’avere delle caratteristiche comuni alle persone altamente sensibili:


La zebra: è un animale atipico, indomabile, unico, capace di mimetizzarsi con il paesaggio.

Il cane: è fedele, attaccato, devoto.

Il gatto: è delicato, acuto, suscettibile.

Il cammello: è incredibilmente resistente.

Il criceto…gira in tondo a tutta velocità sulla sua ruota.


Christel Petitcollin nel suo “Il potere nascosto degli ipersensibili” attinge al mondo animale per descrivere un insieme di qualità delle persone altamente sensibili, che riflettono la loro “iperefficienza mentale” che implica una misura di grande intelligenza ma che però spesso viene percepita come disfunzionale, soprattutto dalle persone stesse, oltre che molto spesso dalla scuola e dalla società. È facile che le PAS vengano definite quantomeno problematiche e che noi stesse ci sentiamo tali.


Chi di voi (noi) non ha mai voluto scendere dalla ruota del criceto, esaurit* dal continuo girare?


Perché questa è la condizione del cervello altamente sensibile: un continuo stato di attivazione, la percezione di dettagli sensoriali, ambientali, relazionali che altri neanche minimamente vedono, un costante sforzo elaborativo, la testa che parte da ogni particolare per creare immagini, aspettative, idee su noi stessi e sugli altri. La sensazione di venire da un altro pianeta, abitato da animali strani.


La metafora degli animali mi piace perché istintivamente cerchiamo quello con cui identificarci in toto, tipo i test che si facevano sui giornalini (“Tu che animale sei?”) perché abbiamo bisogno di sentirci definiti, contenuti in una rassicurante descrizione che a volte diventa una maschera che ci costruiamo per poter interagire con gli altri secondo qualcosa di “riconosciuto”.


Non nego che le maschere tante volte funzionino. Ci permettono di sopravvivere, di agire secondo schemi di comportamento che possiamo seguire. Il rischio è che a un certo punto diventino delle prigioni, che quel nostro essere anche altro voglia tornare fuori o che scegliamo una maschera penalizzante, che ci toglie luce e potere.


Credo che l’identità, intesa come il sapere chi siamo e di conseguenza cosa è bene per noi, sia qualcosa che si fonda sulla genetica, sulle condizioni ambientali, sulle nostre esperienze, ma anche qualcosa che possiamo scegliere consapevolmente di costruire e modificare. Partendo dalla conoscenza di noi, dall’ascolto di quello che spinge per uscire, dall’accettazione liberatoria di poter essere altro e di andare alla sua scoperta.

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